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L’universo, la mayonnaise e le congiunzioni non astrali

novembre 28, 2021

Capitolo due della storia dello scorso fine settimana, Grotta Sara.

Immagina una vita basata su molecole non cariche, apolari, in un ambiente apolare, tipo un oceano di metano liquido, e le molecole polari che svolgono la funzione delle code apolari dei fosfolipidi di membrana nelle nostre cellule. Praticamente una specie di mayonnaiase. Ma ancora meglio, l’Universo potrebbe essere proprio come la mayonnaise, un’emulsione di due tipi di materia diversi, che non possono mescolarsi in teoria, ma .… facendo questi ragionamenti a Piero stavamo salendo, sul furgone di Marco, verso Monteprato. Andiamo a vedere dall’altra parte della possibile, probabile, sperabile congiunzione. Si va di nuovo in Grotta Sara, questa volta al ramo in salita chiamato Turbodio.

La zona della Grotta Sara dove attualmente terminano le risalite del ramo Turbodio

La mia ultima uscita in questa grotta è stata quella del 28 febbraio scorso, cui ho accennato nel post intitolato Passaggio caratteristico. Quella volta sono uscito di grotta disintegrato. La Regina dice “putrefatto”. Allora ero arrivato appena alla Sala della Clessidra e avevo curiosato solo su per la risalita di 35 metri che parte da lì. Questa volta parliamo di farci tutto il meandro di accesso (il mio tempo medio storico è pari a 3 ore di progressione), percorrere gran parte del ramo principale (collettore fossile enorme) e risalire per un casino di metri su per Turbodio (si sale di quanto, 120, 140?). Secondo me, mi servono 5 ore per arrivare al termine delle risalite. Poi dobbiamo piazzare l’ARTVA in trasmissione, aspettare 2 ore che gli altri provino a capire dove siamo dall’alto dell’altra grotta, quindi tornare indietro e secondo me sono altre 5 ore per tornare indietro. Lo so, per quelli bravi 10 ore di progressione non sono granché, ma io vorrei divertirmi, oltre a saziare la curiosità da esploratore. Ad accrescere la mia preoccupazione c’è il fatto che Marco è andato molto più in grotta di me quest’anno, Piero è sempre stato inarrestabile e c’è pure Roberto che ha un fisicaccio ed è veloce. Non ero proprio tranquillo prima di entrare.

Mentre scendo cerco di tenere il mio ritmo. Tenere il proprio ritmo in posti scomodi (molto scomodi) come il tratto di accesso della Sara è essenziale. Se provi a forzare ti massacri di fatica e scoppi. Se vai troppo piano hai freddo. Il tuo ritmo. Ho il sacco con dentro ARTVA, illuminatori per fare foto, macchina, cibo, acqua. Se lo prendono Marco e Roberto e vanno avanti. Io resto scarico e posso concentrarmi sul ritmo. Ma Piero era più lento di me questa volta, così mi sono fermato ad aspettarlo un paio di volte. Ci sono speleo che partono a razzo e se ne fregano, io no: se non sento il rumore dell’ultimo in coda, mi fermo e aspetto.

Quando arriviamo alla Sala della Clessidra, dove finisce la grandissima rottura di scatole del tratto iniziale, tiro fuori il cellulare per vedere che ore siano. L’ho portato perché ha la bussola e mi sono dimenticato di prendere su una Suunto al Circolo. Già, non abbiamo neppure un DistoX. Sono le 12:35 e abbiamo lasciato l’auto al parcheggio alle 10:35. Guardo e riguardo l’ora sul telefono. Ci deve essere un errore. Saremo entrati almeno alle 10:45, forse 10:50. Se faccio un calcolo pessimista siamo arrivati alla Clessidra in 1h 50′ contro le mie solite 3 ore!! Troppo veloce. Eppure ho tenuto “il mio ritmo”, fregandomene se non sentivo più Marco e Roberto davanti a me, aspettando Piero alle verticali. Sta a vedere che tutto l’allenamento fatto da febbraio a oggi sommato ai chili persi … e poi a febbraio avevo due sacchi, di cui uno pieno di corda, un “bambino” da 100, che era cascato in acqua e pesava una maledizione. Inizio a pensare che mi divertirò, ma devo mangiare, bere e gestire il ritmo come sa fare uno che va in grotta da più di 30 anni.

Dalla Clessidra inizia un problema esilarante. Devi sapere, cara lettrice, che il ramo principale della Grotta Sara è imbarazzantemente grande, per le nostre Prealpi. Un bel popò di galleria che va. Ma io non lo percorro dal 2016. Per fortuna Marco c’è stato sabato scorso. Fatto sta che a suon di dargli dell’anziano, gli abbiamo fatto venire l’arteriosclerosi. E così finiamo per due volte nel posto sbagliato. La memoria mi torna lentamente, così ridendo e scherzando (letteralmente) riusciamo ad arrivare “ai sacchi” dopo un’ora. Siamo ancora in tempo per l’appuntamento ARTVA con gli altri.

Arrivare “ai sacchi” mi emoziona, lo confesso. Fu qui che ci fermammo la prima volta in cui venni in questa grotta, eravamo Ughetta, Turbo e io. Fu l’ultima volta in cui andammo in grotta insieme, Turbo e io. Non immaginavo allora che quella stanchezza, che lo prese risalendo, fosse un sintomo del male che lo ha ucciso nel 2017. Arrivando “ai sacchi”, chiamato da me così perché è il posto dove quelli in esplorazione davanti a noi all’epoca avevano abbandonato i loro sacchi, non posso che pensare a come abbiamo perso un maestro e un amico. Neanche lo dico, perché per qualcun altro è stata ancora più dura. Fra me e me borbotto “bon Stè, adesso fammi capire dove cazzo dobbiamo andare per trovare l’altra uscita“. Il ramo parte sulla destra.

Parte con una risalita su detrito sciolto, un po’ fangoso, ma nulla a che vedere con la parete che si sale subito dopo. Un fangodromo, con la corda che pare un paio di millimetri più grossa, la maniglia che la pulisce espellendo un ricciolo di pantano a ogni sollevamento e il ventrale che scorre una volta su dieci, forse. Ma si sale con passo regolare. E’ grande. Grande grande. Me lo aveva detto un altro amico che non c’è più. Questa risalita l’aveva adocchiata Giannetti, che prendeva in giro Ghembo dicendogli che, se non si era accorto di quell’enorme cosa che sale, avrebbero dovuto fare colletta per regalargli una lampada decente.

E’ grande Turbodio, proprio grande. Se troveremo un passaggio per l’esterno, diventerà un percorso “tipo abisso”, verticale e da fare in gran velocità. Fangoso, ma comodo. Fra quei passaggi strettini e scomodi che usiamo ora e duecento metri di pozzi, preferirei persino trecento metri di pozzi! Dopo la prima risalita fangosa si arriva su una china di massi, pietrame più o meno stabile, e si arrampica per lo più. Fino a una specie di salone, con evidenti tracce di crollo. Da lì ci si infila nell’evidente meandrone, o canyon, che chiaramente è tanto “faglia” e si arriva ai piedi di una nuova sequenza di risalite, questa volta molto meno fangose. La risalita “quella finale” va a sinistra, lasciando il meandrone principale che abbiamo risalito fin qua. Sta cosa non mi piace. Non mi piace perché dall’altra parte sabato eravamo in un posto nettamente orientato, sempre su evidente “faglia”, orientato proprio come Turbodio. Girare a sinistra non mi piace. Non ne faccio una questione politica, è proprio geologica. La nostra ipotesi è che l’altra grotta, impostata evidentemente su una E – O, sia la parte alta di questo ramo, separata da esso a causa di un accumulo di detriti, probabilmente su un restringimento generato dal concrezionamento.

Chiamiamo “grotta” frammenti di sistemi immensamente più grandi di quanto abbiamo visto finora e di quanto siamo capaci di immaginare.

Nell’ultima risalita c’è un passaggio bellissimo: da un camino non molto largo, ci si infila in una finestrella e si esce sul grande ambiente che abbiamo percorso fino a quel momento. Guardo la finestrella dal basso e penso “eeee no eh! Non accetto un passaggio non mayabile adesso, io la sfondo a martellate!”. Mi avvicino e la guardo bene. Non come mi sia venuta fuori, ma dico a voce alta “Silenzio Bruno!” e mi infilo, scoprendo che la finestrella è comodissima. [Per chi non guarda i lungometraggi animati, è una citazione del film Luca della Pixar]
Arrivati all’estremo punto raggiunto dai risalitori (bravissimi!), capiamo di esserci “infognati” in un rametto laterale, con un piccolo arrivo di acqua, con belle concrezioni, ma nessuna circolazione di aria e orientato verso 304°. Sono circa 30° di rotazione. A memoria, 304° è compatibile con l’orientamento della faglia di Samarcanda, che dovrebbe essere poche decine di metri davanti a noi, più a Nord di dove ci troviamo, ma nulla ha a che vedere con gli ambienti dove si trova la squadra “piano superiore” oggi (e dove ero anch’io la domenica precedente). Marco ha piazzato l’ARTVA nel punto più alto e lontano, in un cunicolo alto circa 20 centimetri, dopo che lo abbiamo acceso e messo in modalità trasmissione.

L’ARTVA in un passaggio “piuttosto angusto”

Mentre Marco scende a tentare di aprire l’accesso a quella che sembra una piccola galleria concrezionata (sbarrata da pietre e crostone), Piero, Roberto e io restiamo su in alto, a fare foto e sperare di sentire rumori fatti da quelli di sopra.

In breve tempo l’ambiente diviene nebbioso, a causa dell’evaporazione dell’acqua dalle tute di tre speleo bagnati e accaldati. Fare foto di ambiente è quasi impossibile, così tento un paio di riprese e faccio delle macro (o meglio foto ravvicinate) degli speleotemi. Notate bene, care lettrici, che entrando in grotta abbiamo percepito chiaramente la corrente d’aria (già invernale, verso il basso). In sto bello scrigno di concrezioni non gira nulla. Abbiamo addirittura l’illusione di scaldare l’ambiente col calore che trasferiamo all’aria! Per rifornire la stufa che annebbia e riscalda il posto, mangio croccantini di sesamo come farebbe un bravo criceto.

La goccia costruisce la roccia

A momenti ci pare di sentire voci non nostre, ma sotto c’è Marco che picchia col martello e fa chiasso, quindi non si capisce molto. Probabilmente ciò che percepiamo è il nostro desiderio.

A volte, in esplorazione e nella vita in generale, il desiderio prende il sopravvento, ci convinciamo che ciò che desideriamo sia reale, anche se siamo distanti dal punto in cui dovrebbe esserci la congiunzione, secondo il rilievo topografico delle due grotte, che ovviamente non ho ancora visto aggiornato.

Mentre aspettiamo, la mia mente vaga lungo il ramo Turbodio ed ecco che rivivo la sensazione provata uscendo dalla risalita fangosa e arrampicando sui massi della sala Commission for Sara. Freddo. Niente vapore. Non basta l’acqua che cade a pioggia in un parte della sala, non è solo convezione. Lì c’era circolazione di aria più fredda dall’esterno. E acqua in arrivo. Ecco dove vorrei essere, sopra quella zona. Quanto più in alto? 50 – 60 metri almeno. Nella mente si formano immagini quasi nitide, la roccia, l’orientamento, i fossili, l’aria, il fango, sovrappongono ciò che ho visto nelle due grotte e mi convinco che siano effettivamente un tutt’uno, ma qualcosa ha determinato l’accumulo di tanti detriti, generati da questa faglia che frulla la roccia, sbriciolandola come fossero biscotti. Il cervello umano è un calcolatore potentissimo, capace di astrazione e di scriversi da solo i programmi, modificando anche le connessioni in base alle necessità. Più tardi Marco mi spiegherà che la mia è una forma di psicosi.

Dopo due ore di attesa, spegnamo l’ARTVA. Sono le 16:30. Scendiamo da Marco, diamo un’occhiata all sua galleria. Effettivamente, oltre un pertugio non mayabile, si vede il buio. Stalagmiti si alzano dal pavimento, non c’è corrente (però Ghembo dice che ne ha sentita). Iniziamo a scendere verso la galleria principale. Quando torniamo sull’asse di Turbodio, Roberto esprime i suoi dubbi sull’idea di andare lassù a sinistra. Anche lui pensa sia meglio restare sull’asse da Ovest a Est, anche se ci hanno detto che chiude in colata.

Ripassando per il tratto sopra la sala, si rinnova la sensazione di essere sotto un altro ingresso della grotta. Chissà se i risalitori confermeranno o smentiranno questa tesi? Essere lì senza rilievo è piuttosto da mona, ma ho voluto seguire un’idea che mi è venuta di recente: i ragionamenti da soli non fanno scoprire le grotte, bisogna andarci. Ma andarci alla cieca rende poco. Una giusta via sarebbe andarci con tutti dati già noti in mano. Comunque questa visita mi ha fatto capire molte cose e immaginare di più.

Il ritorno non ha storia particolare. Dalla Clessidra decido di portare il sacco da solo, non tanto per le bestemmie di Marco che lo aveva all’andata, ma perché bisogna fare a turno. In fondo non mi sento stanco. Mi stupisco del fatto che ho ancora energia. Con Roberto scherziamo dicendo che ci serve una motivazione forte: bistecca! Usciamo e andiamo a mangiare una bistecca alla brace! Si!! Parto e vado col mio ritmo. Ho paura di fare da tappo, ma la scaccio. Tieni il tuo ritmo, calmo, continuo. Sei in grotta da quasi otto ore, non lo percepisci ma sei certamente stanco. Ricorda cosa diceva Badino: nei posti scomodi evita il contatto con le pareti, l’attrito ti fa fare più fatica di un movimento “di forza” per evitarlo. Scorri come l’aria e l’acqua. Dopo un po’ non sento più rumori dietro di me. O sono miracolosamente veloce, o si sono fermati. Non importa, sono in tre lì dietro, continua col tuo ritmo.

Tutto bene, ma gli ultimi 30 metri in uscita li detesto. Mi fanno porconare. Alla base del Pozzo ho aspettato gli altri e Roberto esce prima di me. Mi aiuta col sacco nella zona più stretta, non ne potevo più. Non ero stanco, rispetto a febbraio mi sentivo un fiore, ma quegli ultimi metri patisco tanto le dimensioni. Il passaggio è spesso più basso della lunghezza del mio femore, non posso gattonare. Che noia!

Cambiati ed entrati in furgone, accendo il telefono e trovo una mail di Ghembo. In allegato il rilievo delle due grotte. Quella superiore è esattamente sopra al posto dove immagino ci sia un collegamento! Al netto degli errori, la sensazione diviene dato. Ricevo anche un messaggio da Loris: nessun segnale ricevuto dagli ARTVA nell’altra grotta. Dato compatibile con l’ipotesi che abbiamo fatto noi “da sotto”.

Finiamo al bar a Nimis, non il solito perché è chiuso, quello dove non andiamo mai. La barista è gentilissima e la birra buona. Ci sarà da risalire ancora, ripetere trasmissioni, marcare aria e acqua. L’esito della giornata è eccellente: per scoprire il passaggio dovremo fare speleologia!

PS: la mattina seguente mi faceva male ogni muscolo del corpo, compresi quelli delle palpebre!

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