Un giro nella grotta Sara di Monteprato
Finalmente ci sono tornato! Era dal gennaio 2016 che non mettevo piede nella Grotta Sara di Monteprato, bloccato da una spalla dolorante e indurita come una chewing gum vecchia lasciata al sole. Bella immagine.
Per chi non se lo ricordasse, la Grotta Sara (scheda dal Catasto Regionale delle Grotte) è una bellissima e importante cavità che si sviluppa nel rilievo situato a Est del solco del torrente Cornappo, nelle Prealpi Giulie meridionali (Friuli). Il paese di Monteprato, che sorge al margine di un piccolo altopiano carsico, dà nome alla zona. La grotta venne scoperta da Turbo (Stefano Turco) mentre vagava nel bosco un’estate di tre anni fa. Un piccolo buco soffiava gagliardamente. Turbo volle chiamare Sara la grotta, come sua moglie, la quale è probabilmente l’unica persona al mondo ad avere una grotta a lei dedicata e a poterci andare.
In seguito i soci del Circolo Speleologico e Idrologico Friulano – CSIF 1897 – hanno spostato i massi che ostruivano l’ingresso e guadagnato metro dopo metro la via verso il cuore della montagna.
La parte alta della Sara è un “meandro”. Di fatto si tratta di un drenaggio che scende non troppo rapidamente di circa 150 metri verso un collettore. Fin dall’inizio si scende, ma i tratti a pendenza elevata sono alternati ad alcuni con pendenza quasi impercettibile, intervallati da saltini.
A circa un terzo del meandro (entrando) si incontra la verticale maggiore della grotta, un pozzo profondo 40 metri e piuttosto complesso. A questo segue ancora un saltino, poi si procede con pendenza moderata fino a quella che è l’anticamera della meraviglia. E’ un posto bagnato e scomodo, che terminava con una strettoia. Me ne hanno parlato molto male, ma per bestiale che fosse la strettoia, non aveva fatto i conti con Rosa (Romanin) che passò e riferì che oltre c’era un ulteriore saltino, il meandro continuava. Resa transitabile la strettoia anche agli altri umani, esploratori più ingombranti passarono in un ambiente grande, molto grande, che chiamarono Sala della Clessidra.
Da qui un altro mondo, una galleria ampia viaggia in una direzione che nulla ha a che vedere con quella del meandro di ingresso e ci fa sognare, anche se fra sifoni e faglie i sogni diventano complicati da trasformare in realtà.
Il rilievo depositato al Catasto Regionale è sempre parziale, perché l’esplorazione continua. Io sono arrivato fino alla grande faglia su cui si schianta la galleria (grande e bellissima) chiamata Samarcanda, ma gli altri sono andati oltre e hanno trovato altre vie, complesse e sempre minacciate da frane varie, ma benedette dalla circolazione dell’aria.
Mentre la squadra di punta si diletta con uscite NoWatch della durata media superiore alle 12 ore, sabato scorso ho avuto la fortuna di farmi accompagnare da Piero e Antonella a fare un crash test, per valutare la possibilità di tornare in pista, o meglio tornare giù nel collettore, dedicarmi un po’ alle risalite e provare a fare qualche osservazione sviluppando idee che sono nate nel corso di lunghe chiacchierate con Turbo.
Il mio pallino è quello di cercare di capire la genesi della cavità, in particolare delle grandi gallerie del “collettore”, e il suo rapporto con il drenaggio superficiale che è oggi dominato dal profondo solco della forra del Cornappo. Là sotto, nelle gallerie della Sara, si vedono piuttosto bene diverse fasi di riempimento e rierosione, che sembrano persino piuttosto recenti, se consideriamo che solo raramente il pavimento è concrezionato. C’è molto da capire, inoltre la Sara è una cavità piuttosto ricca di fauna. In tutte le visite che ho fatto ho potuto osservare coleotteri (Carabidae) e dal basso della mia ignoranza in fatto di entomologia ipogea sono quasi sicuro di avere osservato almeno due specie, in livelli diversi della cavità.
Il test è stato duretto, perché nella primissima parte della grotta il meandro è decisamente scomodo per una persona della mia stazza e scarso allenamento, ma siamo arrivati comunque all’obiettivo, ovvero alla base del P40, prendendoci il tempo per curiosare in giro, soprattutto verso gli arrivi che, più o meno evidenti, occhieggiano sopra il nostro percorso. E’ probabile che stiamo camminando nella parte più bassa di un meandro che a tratti è alto più di 10 metri, probabilmente fra i 15 e i 20, dove sono evidenti i segni del passato, rappresentati da solchi riferibili a livelli più alti del pavimento. Una morfologia che conosciamo bene, noi che siamo cresciuti lungo i meandri della Doviza.
Di cose da fare ce ne sono, parecchie, e abbiamo guardato con calma solo la parte alta del meandro, decisamente meno della metà. La prossima volta è da stabilire se giocheremo a fare le arrampicate o si andrà a dare un’occhiata nella parte bassa del meandro, dove qualche ideuzza c’è da un pezzo. Secondo me a poco a poco qualche metro di rilievo riuscirò a farlo anche in sta fase di riabilitazione.