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Cinquant’anni

novembre 10, 2017

Cinquant’anni fa due uomini affrontarono in coppia le profondità di un grande complesso alpino. Erano Mario Gherbaz e Adelchi Casale, che giunsero con una “punta” incredibile a un “fondo” dell’Abisso Gortani in Canin.

Mi ero completamente dimenticato di questa ricorrenza, se non fosse che Antonella (Tizianel) ha postato su Facebook un’immagine di un trafiletto del Piccolo, in cui sono riportate le notize rilevanti dell’edizione di 50 anni fa, fra cui questa.

Di quell’impresa mi parlò in modo frammentario mio padre tanti anni fa, dicendo che “Marieto el xe fora, solo lui riesce a fare certo cose!”. Ma non percepivo l’importanza di quell’evento. Vuoi perché ero uno speleologo imberbe, vuoi perché per me -675 sembrava una notizia così così, dato che avevo vissuto la stagione in cui arrivavano i resoconti delle punte a -1000 dei fortissimi triestini e di altri speleo italiani.

Fu, come al solito, Giovanni Badino a spiegarmi la grandiosità di quell’esplorazione. Lo aveva scritto, ma ne parlò un giorno durante un incontro di quelli casuali e senza fretta per nessuno dei due. E mi fece notare, perché non ci arrivavo da solo, che stavamo parlando degli anni ’60 e di due, dico due speleo, che fanno una punta in quel tipo di grotta, a quella profondità.

La cosa rilevante non era tanto la profondità, ma il fatto che due persone non potevano esplorare nemmeno un -100, figurati una cavità complessa fino a -675. No, non era possibile, prima di quel giorno non lo era.

Perché l’esplorazione che era stata condotta fino allora era “pesante”, fatta di squadre enormi composte da portatori, persone che restavano in testa ai pozzi per ore e ore ad attendere di dare sicura a chi risaliva, fatta di pochi uomini di punta che scendevano su quel percorso di scalette per raggiungere il limite fra noto e ignoto e proseguire portandosi dietro altri speleo d’appoggio.

L’esplorazione moderna, quella che sappiamo fare oggi, nacque in quei giorni fantastici nella pancia del Col delle Erbe. Ricerca dei materiali, leggeri e affidabili, allenamento bestiale, ma soprattutto testa. Badino lo ripetè due o tre volte: la rivoluzione fu culturale e mentale. Si può andare in due in un posto remoto.

Ripenso a quando, con naturalezza, salivamo in due in quota, preparavamo il materiale, scendevamo a fare le nostre cose in grotta e risalivamo. In due, da soli. Senza precisa coscienza in quei momenti eravamo semplicemente “figli” di Gherbaz e Casale.

Secondo me tutti gli speleo del mondo dovrebbero celebrare ogni anno un rito in ricordo di quei giorni, in cui nacque l’esplorazione moderna delle grandi grotte. Ovviamente con un granpampel coi fiocchi!

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