Parlando di come uso il GIS per studiare le zone carsiche ho citato il caso in cui faccio una ricerca di avvallamenti (doline) usando una tecnica che potete trovare agli articoli Cercare doline con QGIS e Cercare doline – secondo metodo.
Il mio metodo si basa sul fatto che la Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia mi fornisce i dati necessari attraverso il proprio portale cartografico. Questo non accade per altre regioni e limita molto la possibilità di operare in questa maniera. Ad esempio, la risoluzione del DTM nelle aree interne della Sardegna, fino a l’ultima volta in cui l’ho scaricato, era insufficiente per questo tipo di lavoro. Allora che si fa? Beh, direi che non siamo in condizioni di commissionare dei voli ad hoc per la nostra attività, ma possiamo arrangiarci per zone molto piccole. Quello che vedete qui sotto è il mio primo DTM di una piccola porzione di una zona carsica che ho visitato perché ci stanno lavorando degli amici.
Ci pensavo da un po’, più per lavoro che per speleo (che è e rimane il mio hobby storico anche se molto serio), dopo averne parlato con Max Pozzo durante il seminario sui monitoraggi a Cala Gonone mi ero abbastanza convinto, ma sono lento e così ho aspettato l’anno nuovo per darmi una mossa. – Chi dice che trovarsi fra speleo e chiacchierare delle nostre passioni non serve, sbaglia. Le idee buone possono arrivarti da chiunque in quei frangenti e di solito è qualcuno con cui non avevi mai parlato prima.

Questa è la visualizzazione ottenuta creando un layout mediante QGIS senza tanti smussamenti e fronzoli. Di fatto ogni tessera del mosaico ha una dimensione di 5 cm di lato, ovvero la risoluzione è 10 volte maggiore rispetto al migliore DTM regionale a cui posso accedere! Se vi sembra tutto a cubetti è perché stiamo guardando dettagli minuscoli, fate caso alla scala.
Come ho ottenuto questo risultato? Ho utilizzato 21 immagini acquisite usando un UAS, ovvero un Unmanned Aircraft System. Detto in modo potabile: un drone. Il concetto di UAS è drone + controllo (da cui system) ma lasciamo perdere. Roba costosa? In realtà ho usato un UAS commerciale di massa al decollo inferiore a 250g, ovvero quello che non richiede addestramento specifico. È comunque registrato e io sono registrato come pilota, il drone è assicurato e deve rispettare tutte le norme di volo nazionali, per cui non potete volare dove vi pare, ma in questo caso ero in una zona dove ero libero di operare fino a 120 m dalla superficie.
Le immagini sono state acquisite da 12 m di altezza rispetto al punto di decollo, il che spiega la risoluzione molto elevata. In basso al centro vedete l’ingresso di una cavità, alla sua sinistra ci sono dei bitorzoli: gli zaini degli speleo e il pilota. L’elaborazione ha eliminato tutto ciò che ha riconosciuto come alberi e cespugli, per restituire la superficie del terreno (vero DTM) e non la superficie grezza in sé (il DSM).
Ho usato il software WebODM su un pc che ha montati 32 Gb di RAM e una scheda grafica dedicata con appena 4 Gb di memoria propria. Per poche immagini ci impiega una decina di minuti, mi fornisce DSM, DTM, nuvola di punti, ortomosaico (ortofoto) e un rapporto di qualità molto interessante. Il programma è open source, ma se non avete capacità o voglia di fare gli informatici, comprate un installatore che fa tutto lui. Io ho fatto così, non costa molto.
I limiti di sta cosa? Se andassi su a 120 m con quel sensore perderei molta risoluzione, ma potrei coprire zone più ampie facendo fino a 200 foto. Col mio computer non è pratico fare di più, perché devo lasciarlo elaborare mentre io non lavoro. Considerate che quel modello nella figura è derivato da 11.135.268 punti ricostruiti da fotogrammetria. Il ragazzo ha lavorato un bel po’ per fare tutti i calcoli. La vera sostanza è quella che vedete qui sotto: la nuvola di punti. A ciascuno di quei 1.135.268 punti sono associate proprietà come X, Y, Z, R, G, B.

Credo che con la mia Zanzara e il mio computer non riuscirò mai a coprire 1 km2 di zona carsica, ma il metodo è quello ed è piuttosto buono per studiare la morfologia superficiale di una zona ristretta che ci interessa. Da questo modellino ad esempio ho potuto misurare la direzione delle fratture stabilendo che ci sono almeno 3 gruppi distinti, fra cui uno N-S, uno E-W e uno che se ne va a 78° circa.
Opinione personale: ogni tecnica è solo una tecnica. Apre nuove vie, ma non deve essere fine a sé stessa. Le grotte si esplorano innanzitutto entrandoci, il resto aiuta, ma non può essere predominante.

Nel Ramo Destro della Grotta di San Giovanni d’Antro
Per trent’anni sono passati davanti all’imbocco del Ramo Destro, camminando di fretta lungo i marciapiedi (!!!) del tratto turistico della Grotta di S. Giovanni d’Antro. Complice il fatto che nuove verticali parallele al Camino Gibran finiscano a destra del principale in una zona dove non sono note gallerie, ho chiesto a Federico Savoia, che aveva esplorato il ramo negli anni ’70 del secolo scorso, di accompagnarmi a dare un’occhiata. Si sono uniti anche Roberto “Yoshi” Lava e il nostro presidente Umberto Sello.
Recuperate le chiavi dagli amici dell’associazione di Tarcetta, che gestiscono l’accesso turistico alla cavità, siano saliti ad Antro, per indossare le mute al solito piazzale dietro la chiesa. La temperatura, nonostante la giornata uggiosa, non era scoraggiante. Quindi su per la lunga scalinata in pietra e rapidamente fino all’imbocco del ramo.
Leggi tutto…Lo scorso fine settimana 150 persone, provenienti da tutta Italia, si sono incontrate a Narni per celebrare e festeggiare il 20° compleanno de La Scintilena, il notiziario web italiano dedicato alla speleologia.
Lo sapete probabilmente tutti cosa sia La Scintilena e chi sia Andrea Scatolini, il motore inarrestabile di questa iniziativa. Andare a Narni è stato per me un immenso piacere, uno dei fine settimana belli, quelli che ti fanno bene all’animo. Alcune riflessioni ora le posso fare (Mayo, dai, no, non serve, stai sereno!).
Leggi tutto…Finalmente sono riuscito a vedere il film “Il buco” diretto da Michelangelo Frammartino, che ha generato molto entusiasmo all’interno della comunità speleologica italiana e ha ricevuto molto apprezzamento da parte della critica cinematografica.
La storia è quella dell’esplorazione del 1961 all’Abisso del Bifurto, nel versante calabrese del massiccio del Pollino. Gli esploratori furono speleologi del Gruppo Speleologico Piemontese, di Torino, che raggiunsero la profondità massima di 683 m dall’ingresso.
La ricostruzione della situazione è eccellente: abiti, equipaggiamento, tecniche, il lungo viaggio, il campo in pesanti tende militari, tutto richiama i racconti che mi fecero mio padre e i suoi compagni, relativi ad altre spedizioni degli anni ’60. Un’immersione completa in un mondo, speleologico e non, che noi giovani (cinquantenni) non conosciamo. Anche il paese dove fanno tappa gli speleo è ben curato, senza antenne tv sui tetti, non si vedono cavi in giro, è cura dell’ambientazione.
I luoghi sono splendidi, la fotografia un po’ oscillante, a tratti molto buona, altre volte meno (non so perché). Molto buono il lavoro fatto per non esagerare con l’illuminazione aggiuntiva in grotta: abbiamo l’impressione di vedere tutto con le luci portate dagli esploratori, esattamente come siamo abituati a fare noi speleologi. La grotta illuminata in ogni angolo, quella dei film ollivuddiani, non esiste proprio.
Bella l’idea del parallelo, del viaggio che viene compiuto dagli speleologi e dall’anziano pastore, verso le rispettive conclusioni del percorso.
Il film mi ha saputo dare alcune sensazioni che provo in grotta. Ho quasi percepito il freddo e l’umidità, la curiosità di sapere cosa ci sia in quel nero qualche metro davanti a me, la gioia di scoprire che “continua” e la breve strizza che ti prende quando inizi a scendere un pozzo di cui non vedi il fondo con la tua lampada. Purtroppo la lentezza ha fatto si che provassi altre due sensazioni frequenti in grotta negli ultimi anni della mia vita: noia e disagio. Peccato. Ma d’altro canto, rendere l’idea della lentezza della progressione non è banale. Nei film ollivuddiani si vedono umani fare cose pazzesche in pochi secondi. La verità è che impieghiamo quasi un’ora ad attrezzare un pozzo e anche percorrere cinquanta metri di gola sotterranea mai vista prima è cosa che richiede tempo, soprattutto se cerchiamo di evitare di bagnarci. Perché bagnarsi e fare un giro su e giù per 683 metri, con le tute di cotone di allora, non è proprio il massimo. E il disagio ci sta pure. Spesso sono a disagio in grotta, il film mi ha catapultato dentro il Bifurto e ho provato disagio, la voglia di vedere il cielo blu e il sole, che combatte con la voglia di scoprire cosa ci sia nel buio e disegnare la mappa di terre incognite.
Direi molto speleologico.